Notizie Radicali
  il giornale telematico di Radicali Italiani
  giovedì 25 maggio 2006
 Direttore: Gualtiero Vecellio
Si rischia lo stallo, per superarlo serve ridare forza al progetto di costruzione del nuovo soggetto politico. Due.

di Gualtiero Vecellio

E’ un buon punto di partenza, prezioso, l’intervento di Antonio Bacchi pubblicato su Notizie Radicali del 25 maggio che abbiamo intitolato, sperando di non tradirne troppo senso e intenzione, “Si rischia lo stallo, per superarlo serve ridare forza al progetto di costruzione del nuovo soggetto politico”.

 

Ci sembra che Antonio segnali e solleciti una riflessione che è urgente; perché è vero: pur se travolti dalle mille incombenze legate prima alle elezioni politiche, poi alle elezioni amministrative, e, giusto per non farci mancare nulla, l’inventarci i modi per schivare le raffiche di “fuoco amico” che vengono dall’Unione a fronte di una reiterata e conclamata lealtà, si rischia forse di dare per scontato troppo, e d’altra parte questioni e problemi non procrastinabili vanno pure affrontati prima o poi. E al tempo stesso ci sono una quantità di altre “urgenze” che chiamano. C’è solo l’imbarazzo della scelta: si va dalla questione dei senatori rubati, vicenda alla quale non ci si può e ci si deve rassegnare; alla vicenda del potere di grazia del presidente della Repubblica, che pur ha visto un importante, significativo, tardivo riconoscimento da parte della Corte Costituzionale, ora deve tradursi in qualcosa di concreto e di operativo; e infine, ma non infine, amnistia, indulto, giustizia: qui bisogna guadagnarlo ancora a consapevolezza collettiva il fatto che la giustizia in Italia, il modo in cui viene negata e amministrata, è non tanto o solo “diritto civile”, ma eminentemente problema sociale. Ma è superfluo qui squadernare tutto l’elenco delle urgenze e dei fronti di lotta. Li conosciamo bene.      

 

“Si rischia lo stallo”, ci ricorda Antonio, e per superarlo, sostiene che occorre ridare forza al progetto di costruzione del nuovo soggetto politico, la Rosa nel Pugno. Chiudere ora questa esperienza, come pure molti si augurano – e sono assai più di quanti esprimano la loro aperta ostilità – “farebbe solo perdere l’investimento iniziale. In campagna elettorale la RnP ha dimostrato di sapere suscitare molta attenzione e interesse. Nell’urna questa attenzione si è concretizzata solo in piccola parte e l’impressione è che in molti non si siano spinti oltre, pur attratti da questa indubbia novità, in attesa delle necessarie verifiche e del banco di prova post elettorale. Serve quindi dimostrare la concretezza del progetto politico, prima che quell’attenzione si perda. Per questo è urgente arrivare al varo del percorso per la costituente del partito della RnP, con una piattaforma programmatica che parta dai temi di Fiuggi e li approfondisca”.

 

Per riprendere il filo del discorso di Antonio può essere utile cominciare a descrivere il contesto in cui si viene ad operare. Il clima surreale che ci ha accompagnato per tutta la campagna elettorale, continua. Chi ci ha governato fino all’altro giorno (e i buoni risultati sono certificati da ultimo da quel covo di comunisti che è l’Istat), oggi come ieri non è tanto chiamato a rendere conto del fatto e dell’omesso; piuttosto è l’accusatore.

 

Il famoso marziano di Ennio Flaiano, se sbarcasse a Roma e in Italia in questi giorni faticherebbe a capire di chi sia la responsabilità del fatto che in questi anni l’Italia ha arrancato, la crescita del suo potere di acquisto è cresciuta del 3,2 per cento, la peggiore di tutti i paesi dell’Unione Europea; che la disoccupazione giovanile sfiora il 25 per cento; che il debito pubblico lordo è superiore al 100 per cento del prodotto interno lordo del paese; che la produttività e la competitività sono in stallo o in calo. Insomma, non ci facciamo mancare nulla, quando si parla di trend negativi. Berlusconi è stato bravo: ha saputo invertire i ruoli, e ha trovato tutti i punti deboli della coalizione stretta attorno all’Unione, ha saputo sfruttare al meglio questa situazione. E continua a farlo. Il suo dire e il suo fare, il suo agitare possono all’apparenza sembrare il fare, il dire, l’agitarsi di un esagitato che non sa e non vuole rassegnarsi alla sconfitta. Non è così. C’è un metodo, c’è un’ “intelligenza” dietro questa apparente follia. Lo si vedrà alle amministrative, e – probabilmente – ancor più in occasione del referendum sulla nuova Costituzione. E se all’Unione andrà bene, più che per i meriti suoi, lo si dovrà per le “resistenze” e i “non ci sto” che oppongono AN e UDC. Enrico Cisnetto, che gode di meritata e riconosciuta fama, e non è accusabile d’essere komunista, dice che l’Italia sconta un ritardo significativo nella media europea e anche i paesi che per un po’ sono apparsi nella nostra situazione, come Francia e Germania, oggi vanno meglio, dimostrando una solidità strutturale che invece a noi manca. I nostri problemi non erano solo congiunturali, ma strutturali, e adesso che in tutto il mondo va prefigurandosi una ripresa noi rischiamo di restare fermi.

  

La medicina consigliata è “decidersi ad affrontare finalmente i nodi strutturali irrisolti. Cambiare il modello di sviluppo basato sulla piccola impresa e sui manufatti a basso costo, cambiare gli assetti proprietari del capitalismo nostrano, basato più sulle opportunità che sui diritti. C’è poi un libro che merita di essere segnalato e letto, quello del professor Pietro Ichino, giuslavorista che insegna all’università Statale di Milano; è stato parlamentare dei DS, è nato in CGIL che continua a essere il suo sindacato. Il libro si chiama A che serve il sindacato?, e già dal titolo si comprende che Ichino batte là dove il dente più duole; e infatti si occupa delle “follie di un sistema bloccato e la scommessa contro il declino”.

  

Il sindacato, dice in sostanza Ichino, può servire a difendere i lavoratori regolari dalla concorrenza di quelli che carcerano di entrare nel mondo del lavoro; può servire a difendere con le unghie e con i denti strutture vecchie e improduttive. Potrebbe e dovrebbe servire come strumento indispensabile “per la scommessa comune tra lavoratori, investitori e il management sul futuro di un’azienda”.

 

Berlusconi ci ha lasciato due grosse polpette avvelenate: la prima è la legge elettorale che in parte si è ritorta contro di lui, ma che comunque ha portato al risultato che tutti sappiamo; una legge che opportunamente Marco Pannella ha definito “sfascista”. L’altra è l’esser riuscito ad imporre – e imporci – il suo avversario preferito. Nel corso della campagna elettorale Berlusconi ha creato, letteralmente, il suo avversario “comunista”, ed elevandolo a suo antagonista, ne ha fatto così il protagonista. Imponendo come suo interlocutore nei suoi dibattiti televisivi Fausto Bertinotti e Oliviero Diliberto, li ha fatti lievitare e crescere; e anche, se non soprattutto grazie a Berlusconi, se hanno avuto quella straordinaria visibilità che poi ha fatto loro guadagnare quei consensi che hanno portato ai gruppi parlamentari che hanno potuto costituire. L’Unione – DS e Margherita – questo processo, questa strategia berlusconiana, l’ha, certamente per miopia, condivisa nei fatti, accettata, subita. E ora, la deve patire. Non tralasceranno di esercitare il loro potere di veto e di ricatto, e cercheranno di condizionare in ogni modo, si tratti della legge Biagi, delle missioni di peace-keeping, dell’Irak, dei lavori dell’Alta Velocità. Dispiegheranno tutto il loro potenziale, e daranno il meglio che può e sa dare una forza di sinistra conservatrice.     

 

Un’altra riflessione che meriterebbe d’essere fatta, più approfondita e con l’aiuto di maggiori strumenti conoscitivi di quanto non si sia fatto, è poi quella relativa al risultato elettorale: perché la Rosa nel Pugno non ha raccolto quel consenso che tanti le attribuivano; perché la marcia trionfale dell’Unione si è alla fine ridotta a una misera differenza di poche migliaia di voti. Un giovane studioso, Roberto Cartocci, per esempio, in anticipo e inascoltato aveva avvertito che la vittoria “sicura” del centro-sinistra era meno “sicura” di quanto si diceva e credeva. Ilvo Diamanti, forte dei dati raccolti dal suo centro studi, ha segnalato per tempo quella che ha definito una sfasatura fra il campione nazionale e le indagini condotte su base regionale.

 

Deve certamente far riflettere che tutto il nord del paese, ad eccezione della Liguria, sia tornato sotto le bandiere della Casa della Libertà, in una situazione, oltretutto, che vede la Lega ripiegata e di scarso appeal. Alberto Statera e Diamanti hanno cominciano a scavare la crosta di questa realtà e ne hanno ricavato utili materiale per la nostra riflessione. Come spesso avviene, la letteratura riesce ad anticipare quello che poi viene colto da studiosi e politici. Già un anno fa un romanzo di Massimo Carlotto e Marco Videtta, un noir chiamato Nordest, anticipava la realtà di questo territorio ricco e complesso, considerato la locomotiva della economia italiana, e che oggi sta vivendo una crisi epocale, che determina la fuga degli industriali verso Cina e Romania; un paese dove l’illegalità diffusa ha permesso di accumulare grandi ricchezze e un sistema economico che non si è mai posto, per esempio, problemi rispetto al saccheggio del territorio.

 

Quel Nord che abbiamo immaginato, un nord assetato di modernità, insofferente per le paralizzanti reti corporative, “liberale” nel senso più alto e più nobile del termine, ci avverte ora Diamanti, “non c’è più. È un’altra epoca, un altro secolo. L’economia magari non è in crisi depressiva, come si dice, ma l’età della crescita infinita è sicuramente finita. Soprattutto è cambiato il sentimento sociale. Da alcuni anni, infatti, si respira un’aria di pesante pessimismo. Anche – anzitutto – fra gli imprenditori. La maggioranza nel Nord teme la delocalizzazione, la concorrenza internazionale, i cinesi”. Diamanti fotografa una situazione che la lettura in filigrana di Nordest già faceva intuire: sempre più distanti e ostili nei confronti della politica, anche se al governo ci sono partiti ritenuti amici. Una sfiducia e una distanza che crescono, e che non si traduce più in rabbia o protesta, ma in delusione. E voglia di conservazione. Timore e paura. Qui c’è un dato che forse merita più attenzione di quanta non ne abbia avuta: la Lega è ormai l’ombra di se stessa, e Forza Italia si ha recuperato qualcosa rispetto alle rovinose elezioni regionali del 2005; ma in dieci anni ha perso la metà dei suoi consensi. La tenuta della Casa delle Libertà si deve a UDC e Alleanza Nazionale. Gli elettori del Nord, conclude Diamanti, in questa occasione, più che per protesta, più che per adesione, sembrano aver votato per diffidenza verso il centro-sinistra. E di questa diffidenza credo che alla fine anche noi abbiamo pagato qualche conseguenza. E’ stato, quello del Nord, un voto di paura, di ripiegamento, corporativo, un voto conservatore; non poteva essere intercettato dalla Rosa nel Pugno. 

 

Comunque, è andata così. Questi diciotto parlamentari sono una postazione di lavoro, questo 2,5 per cento di voti circa dobbiamo metterlo a frutto. Se siamo tutti convinti che quello della Rosa non sia un mero cartello elettorale come piacerebbe fosse a D’Alema, il nostro compito allora è nutrire, alimentare questo progetto politico, irrobustirlo e ulteriormente rafforzarlo, rilanciarlo con convinzione e determinazione.

  

La prima cosa da respingere, evidentemente, è la tentazione di ripiegare e dimettere i nostri temi, che, per inciso sono si, questioni legate ai diritti civili. Ma sono anche questioni legate ai temi sociali. Si prenda per esempio il tema della laicità dello Stato. Di fronte alla straordinaria offensiva clerical-vaticana – ormai ci manca poco che ci chiedano di scusarci per la breccia di Porta Pia – opporre una resistenza laica non è evidentemente solo questione di “diritti civili”. Dell’esenzione ICI di cui beneficiano tutte le proprietà ecclesiastiche e gli edifici in qualche modo riconducibili ad attività di culto, sappiamo, anche se non sappiamo – e sarebbe pur interessante saperlo – a quanto ammonta, in termini di mancato incasso, questa esenzione. E si dica pure che si è anticlericali: ma sarebbe pur opportuno un monitoraggio per conoscere esattamente quante e quali leggi e leggine regionali, dalle Alpi alla Sicilia, sono state varate, per esenzioni e agevolazioni e finanziamenti della “cosa” clericale; e a quanto ammontano questi finanziamenti, queste agevolazioni, queste esenzioni. Non è più diritto civile: diventa “roba”: denaro del contribuente che sarebbe bene che il contribuente sapesse come e perché viene utilizzato, a beneficio di chi e a scapito di cosa. E poi tutti gli altri temi legati alla laicità che  qui è sufficiente elencare e su cui deve continuare il nostro impegno: dalla denuncia delle interferenze vaticane ai PACS, dalla difesa della legge sull’aborto alla pillola abortiva e a quella del giorno dopo.

 

Così le questioni relative alla Giustizia, che abbiamo definito la più grande emergenza sociale di questo paese: ci sono tutta una serie di pessime leggi eredità del governo Berlusconi, da quella sul falso in bilancio a quella sulle rogatorie e altre, che sono servite e servono per tutelare gli interessi di pochi, mentre siamo ben lontano dall’affermare i diritti di tutti. E nulla, per esempio, è stato fatto per le vere riforme strutturali, dalla separazione delle carriere alla responsabilità civile dei magistrati. E qui, un inciso: tanti, Associazione Magistrati e loro sostenitori e sodali, appena si evocano questi temi, son lesti nel levare il loro indice accusatore: volete attuare il piano piduista di controllo del magistrato, ne volete minacciare indipendenza e autonomia. C’è da domandarsi se per esempio Giovanni Falcone sia stato un piduista che voleva minacciare la sua indipendenza e la sua autonomia. In una intervista a Mario Pirani per Repubblica, che la pubblicò il 3 ottobre 1991, Falcone dice che “il passaggio dal processo inquisitorio al processo accusatorio comporta delle conseguenze…Un sistema accusatorio parte dal presupposto di un Pubblico Ministero che raccoglie e coordina gli elementi della prova da raggiungersi nel corso del dibattimento, dove egli rappresenta una parte in causa. Gli occorrono quindi esperienza, capacità, preparazione anche tecnica per perseguire l’obbiettivo. E nel dibattimento non deve aver nessun tipo di parentela col giudice e non essere, come invece oggi è, una specie di para-giudice. Il giudice in questo quadro, si staglia come figura neutrale, non coinvolta, al di sopra delle parti. Contraddice tutto ciò il fatto che, avendo formazione e carattere unificate, con destinazioni e ruoli intercambiabili, giudici e PM siano, in realtà indistinguibili gli uni dagli altri. Chi come me, richiede che siano, invece, due figure strutturalmente differenziate nelle competenze e nella carriera, viene bollato come nemico dell’indipendenza del magistrato, un nostalgico della discrezionalità dell’azione penale, desideroso di porre il PM sotto il controllo dell’Esecutivo…”.

 

Un anno prima, a un convegno di studi giuridici a Senigallia, sempre Falcone sosteneva che gli sembrava giunto il momento “di razionalizzare e coordinare l’attività del Pubblico Ministero, finora reso praticamente irresponsabile da una visione feticista della obbligatorietà dell’azione penale e dalla mancanza di efficaci controlli della sua attività”, e chiedeva, consapevole che si trattava di un problema scottante e complesso, che si cominciasse “a discutere dei veri nodi della questione Giustizia”. Sedici anni dopo, le parole di Falcone possono essere ripetute tranquillamente, con l’assoluta certezza non solo che i problemi attendono ancora soluzione, ma che si verrà attaccati con gli stessi toni e la stessa violenza che vennero riservati a Falcone.

  

E’ singolare davvero che i tanti sempre pronti a una mobilitazione e a una denuncia delle vere o presunte disumane condizioni nelle Abu Grahib e Guantanamo sparse per il mondo, non battano ciglio e non considerino la questione delle carceri e della giustizia in Italia, del suo modo di amministrarla cosa meritevole di attenzione e mobilitazione. Ma è quello che accade. Forse bisognerebbe fare in modo che della questione carceri e giustizia si occupassero un po’ gli americani, e magari Donald Rumsfeld. Si può esser certi che immediatamente, i fari dell’opinione pubblica si accenderebbero, e si assisterebbe a straordinarie mobilitazioni e campagne di denuncia e sensibilizzazione di ogni tipo.

  

In Vino e Pane, uno dei più famosi romanzi di Ignazio Silone, don Paolo a un certo punto dice: “Dobbiamo restare insieme. Non dobbiamo lasciarci spartire”.

Ecco.Â